a cura di: Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche “Togo Rosati” e la Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia
Di recente, una collaborazione tra l’Istituto Zooprofilattico Umbria e Marche e la Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia ha sviluppato un protocollo di valutazione della Biosicurezza in un’azienda faunistico-venatoria umbra. L’approccio utilizzato si è basato sull’analisi del rischio come valido strumento atto ad individuare criticità e misure di potenziamento della biosicurezza funzionali alla riduzione di ogni possibile rischio infettivo.
L’azienda sottoposta a studio è di circa 700 ettari di superficie è collocata ad un’altitudine compresa tra 300 e 700 metri sul livello del mare e comprende terreni agricoli ed un’area di caccia. Nell’area di interesse, le consistenze delle popolazioni animali, stimate dal censimento annuale al momento dello studio, erano di circa 380 caprioli, 200 cinghiali, 30 daini, 30 cervi, 300 fagiani, 200 lepri, alcune volpi, alcuni lupi.
Ai responsabili dell’azienda è stato sottoposta una check list sulla falsa riga del modello Classyfarm al fine di comprendere tipologia e funzione delle attività svolte all’interno dell’area, le modalità operative attuate, i flussi interni ed esterni, i potenziali rischi in materia di biosicurezza e le ipotetiche soluzioni.
L’ impatto più immediato dello studio effettuato è stato quello di aumentare la consapevolezza del manager, e del personale che opera nell’azienda, sui rischi infettivi che possono interessare anche la fauna selvatica. È spesso luogo comune ritenere erroneamente, che un’azienda faunistica rappresenti una realtà in grado di garantire l’equilibrio tra specie e che le dinamiche interne siano sufficientemente “naturali” da scongiurare l’insorgenza di malattie trasmesse da microrganismi. In realtà il COVID e l’ipotizzata genesi del virus SARS-CoV-2 da animali selvatici all’uomo, hanno dimostrato la gravità delle possibili conseguenze derivanti da un’interfaccia troppo spinta o poco “naturale” nel rapporto “Uomo – Animale domestico – Animale selvatico”.
L’allevamento rappresenta uno dei punti di sintesi di tale interfaccia esponendo gli attori del triangolo ad un loro contatto frequente (uomo – specie domestiche) o possibile (specie domestiche- specie selvatiche) contatto che può facilitare l’insorgenza, il reciproco passaggio e la diffusione di malattie infettive. Non a caso sembra che, delle cinque malattie infettive emergenti che si manifestano ogni anno nell’uomo, numerose abbiano proprio un’origine animale (zoonosi).
Nell’ottica di questo rapporto, l’allevamento intensivo, estensivo e le aziende faunistico-venatorie presentano profili di rischio diversi a causa delle loro caratteristiche di management, profondamente differenti: se la principale criticità dell’allevamento intensivo è attribuibile al numero di aziende e/o di animali per unità di superficie, per le realtà estensive, sempre più apprezzate in termini di benessere animale e sostenibilità ambientale, il principale rischio infettivo consiste nel possibile contatto tra animali domestici e selvatici. Per un’azienda faunistica invece il rischio principale è quello opposto: il possibile contatto con le realtà allevatoriali esterne, contatto che può essere diretto o indiretto.
In ciascuno dei tre casi, la prevenzione si basa sull’applicazione di misure di biosicurezza, intese come l’insieme degli strumenti (opere edili, impianti, dispositivi, procedure gestionali ed operative, ecc.) cui si ricorre per prevenire o ridurre il rischio di insorgenza e diffusione delle malattie infettive. Nel raggiungimento di questo obiettivo l’allevatore ha il ruolo più importante considerando però che gli strumenti richiesti, tecnologici e formativi-correlati, possono essere definiti solo attraverso una collaborazione ampia e multidisciplinare tra i principali professionisti del settore (Agronomi, Zootecnici e Veterinari).
Nel caso considerato, già rispondendo alle domande delle check list, si sono rese evidenti al personale intervistato, le lacune e le criticità del sistema che esponevano alla possibile introduzione di patogeni e alle loro conseguenze. La consapevolezza durante le risposte alle check list si traduceva, quasi istantaneamente, in un’analisi, da parte del gestore, delle azioni da attuare per migliorare il livello di biosicurezza, ipotizzando flussi e/o procedure alternative, modalità operative diverse e più sicure, mai prese in considerazione prima e spesso anche di facile realizzazione.
Lo studio ha rappresentato un tentativo di analisi del rischio infettivo nella gestione di un allevamento faunistico-venatorio che, pur ospitando specie animali selvatiche, lo fa in un contesto controllato. Il modello proposto serve ad intercettare le criticità che possono riguardare una realtà particolare come quella delle aziende faunistiche e quindi è applicabile in contesti agricolo-faunistici paragonabili a quello preso in esame, con tutti i benefici economici, ambientali e sociali che ne derivano.