16 Gennaio 2023

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Revisione delle emissioni di metano dall’allevamento animale

a cura di: Dipartimento DIANA, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza

Le conseguenze dei cambiamenti climatici indubbiamente in atto hanno riacutizzato la discussione sulle cause di tali mutamenti, la cui chiara definizione è di vitale importanza per potere pianificare le possibili e opportune contromisure da mettere in atto per contenere, e se possibile invertire, il progressivo aumento delle temperature globali.

Il 2022 è stato l’anno più caldo di sempre e contrassegnato da una lunga sequenza di eventi meteorologici estremi, che hanno provocato danni con costi ingenti sia in termini economici che di vite umane. Nel nostro Paese, la situazione si rivela particolarmente critica per la naturale fragilità idrogeologica del territorio, a cui si sommano le conseguenze di una dissennata gestione del territorio.

Il nuovo anno non si è aperto sotto migliori auspici, con un’anomala ondata di calore invernale che ha interessato gran parte dell’Europa.

In questo contesto, l’allevamento animale è messo quotidianamente sul banco dei principali imputati di questo disastro climatico e ambientale. Oltre a ciò, subisce anche continue denigrazioni sul piano etico da chi considera l’allevamento in sé e per sé una pratica contraria ai principi morali di rispetto della vita animale e le attuali pratiche di allevamento “intensivo” come in aperto contrasto con il rispetto del benessere animale.

Che la zootecnia immetta quantità rilevanti di gas serra in atmosfera è oggettivamente un dato di fatto. Le stime indicano che la produzione annuale gas serra, ammontanti a 7,1 Gt (giga tonnellate) di CO2eq dovute all’allevamento del bestiame rappresenta il 14,5% delle emissioni complessivamente attribuibili alle attività antropiche (cioè dovute alle attività umane) totali, ma meno del 5% in Italia. Le emissioni enteriche di metano concorrono per oltre un terzo (35%) alle emissioni del settore.

Nel complesso, i bovini sono i maggiori responsabili di queste emissioni, contribuendovi per circa il 65% e, più in particolare, la produzione di latte e carne bovina contribuiscono rispettivamente per il 41% e il 20% delle emissioni complessive di gas serra del settore. Un ruolo inferiore, ma non trascurabile, a tali emissioni è svolto da altre produzioni zootecniche: carne suina (9 %), latte e carne di bufala (8 %), carne e uova di pollo (8 %) e latte e carne di piccoli ruminanti (6 %).

Le metodologie attualmente in uso per quantificare le emissioni dei diversi gas serra generate da un qualsiasi processo produttivo sono condotte mediante l’ormai noto approccio basato sull’Analisi del Ciclo di Vita o LCA (Lyfe Cycle Assessment). Per uniformare gli effetti dei diversi gas a effetto serra, il contributo di ciascuno di essi viene espresso utilizzando l’unità di misura indicata come CO2-equivalente (CO2-eq), ossia si utilizza come unità di riferimento il potenziale di riscaldamento globale (GWP, Global Warming Potential) dell’anidride carbonica. Al metano vengono attribuiti valori di GWP pari a 84 (GWP20) e 28 (GWP100) a seconda dell’arco temporale considerato, rispettivamente 20 oppure 100 anni (IPCC 2007).

Questa marcata differenza tra i valori di GWP attribuiti in base alla lunghezza dell’arco temporale è dovuta a due fondamentali caratteristiche della molecola del metano rispetto all’anidride carbonica, ossia il fatto di avere un potere di assorbimento delle radiazioni infrarosse (forza radiante) molto superiore ma al contempo un’emivita in atmosfera molto più breve.

Ne consegue che il potenziale di riscaldamento del metano è molto più marcato di quello della CO2, ma perdura per molto meno tempo. Infatti, mentre l’emivita in atmosfera del metano è di circa 12 anni, quella dell’anidride carbonica è molto più lunga. Circa il 50% viene rimosso entro 30 anni, un ulteriore 30% entro alcune centinaia di anni e il rimanente 20% rimane in atmosfera quasi all’infinito (diversi millenni). Due destini dunque molto diversi e con conseguenze altrettanto differenti sul clima.

Negli anni recenti sono state sollevate diverse critiche all’impiego del GWP100 come parametro per la quantificazione dell’effetto delle emissioni di gas serra sul riscaldamento globale, soprattutto con riferimento ai gas, il metano in particolare, che hanno una breve emivita in atmosfera. Esso, infatti, è stato concepito, e ben si adatta, per la valutazione di singole emissioni puntuali di tali gas, ma mal si applica alle produzioni continue, soprattutto se costanti, di molecole con breve emivita. Proprio come accade nel caso del metano biogenico, ossia derivante dalla fermentazione di sostanza organica, indipendentemente dal fatto che tali emissioni provengano da zone paludose, dalla coltivazione del riso oppure dalle fermentazioni ruminali o dalle deiezioni animali.

A differenza infatti del metano fossile, che origina quindi da riserve formatesi in tempi remoti e che rappresenta quindi uno stock di carbonio sottratto all’atmosfera e tesaurizzato nel sottosuolo, il metano biogenico rientra nel complesso ciclo del carbonio atmosferico: i vegetali sottraggono anidride carbonica dall’atmosfera convertendola in carboidrati mediante la fotosintesi.

Questi saranno poi degradati, principalmente ma non solo, da parte dei microrganismi ruminali o dalla microflora tellurica con produzione di anidride carbonica (in condizioni aerobiche) o anche di metano (in anaerobiosi). Mentre la CO2 ritorna direttamente come tale in atmosfera, la parte di essa che viene convertita in metano ne moltiplica l’effetto serra, ma solo temporaneamente.

Nel volgere di relativamente pochi anni questo metano sarà anch’esso riconvertito in CO2, ritornando quindi alle condizioni di partenza, ossia a quelle del momento i cui è stato assorbito dai vegetali. In caso di emissioni costanti, dopo alcuni decenni, nei quali il potere riscaldante del metano in atmosfera aumenta progressivamente, si stabilisce un equilibrio per cui il metano generato è compensato dalla anidride carbonica riassorbita, senza alcun nuovo impatto sul clima. Questi concetti si applicano al metano biogenico, ossia quello prodotto da fonti biologiche (vegetali e animali) e recentemente derivato dall’anidride carbonica (CO2) presente nell’atmosfera.

Partendo da queste considerazioni, è stato recentemente proposto, principalmente da parte di ricercatori climatologhi dell’Università di Oxford, un nuovo parametro, indicato con la sigla GWP* (GWP star) in grado di meglio descrivere le conseguenze sul riscaldamento globale delle emissioni di gas serra con breve emivita. Alla luce di questo nuovo approccio, già validato anche da altri scienziati, la valutazione delle emissioni di metano biogenico rispetto a quelle di metano o di anidride carbonica da combustibili fossili viene completamente stravolta. Quando si impieghi il GWP, un’emissione costante di metano biogenico si tradurrebbe in un continuo aumento dell’effetto di riscaldamento, mentre il GWP* non evidenzia, una volta giunti all’equilibrio, alcuna variazione.

Questo nuovo approccio ha ovviamente enormi ripercussioni riguardo la valutazione della responsabilità attribuita all’allevamento di ruminanti nel mondo e in particolare in molti Paesi con una zootecnia sviluppata. In molti di questi, nel corso degli ultimi decenni si è verificato un marcato calo della popolazione bovina, soprattutto di bovini da latte, mentre la produzione di latte è rimasta circa invariata. Si è quindi avuto un considerevole aumento della produzione annuale per animale. Considerando il fatto che maggiori livelli produttivi individuali comportano minori emissioni di metano per unità di latte prodotto, si può facilmente dedurre che le emissioni di metano da questa fonte siano progressivamente diminuite. A questo proposito è opportuno sottolineare come, se le concentrazioni di CO2 in atmosfera hanno iniziato ad aumentare dal 1870 circa, quelle di metano si sono accresciute soprattutto a partire dal 1960.

In Italia, le emissioni gas serra dal settore zootecnico negli ultimi quarant’anni (1980 -2018) sono diminuite dell’11%, quelle complessive derivanti dall’intero settore agricolo del 13%. Tenendo conto della quantità di metano già presente in atmosfera e proveniente dalle emissioni nei due decenni precedenti, hanno stimato, per condizioni della California dove vi è stato nel recente passato un considerevole aumento della produzione complessiva di latte, che un calo delle emissioni dello 0.3% / anno azzererebbe ogni aumento del contributo del metano biogenico al riscaldamento globale.

Nella situazione italiana, caratterizzata da un progressivo calo del numero di capi e una sostanziale costanza della produzione di latte, si può ipotizzare che il quadro complessivo sia approssimativamente analogo. Come ricordato sopra, le emissioni di metano dal settore dell’allevamento animale nel corso degli ultimi quattro decenni sono diminuite in Italia di quasi lo 0.3 % all’anno, quindi non avrebbero contribuito da questo punto di vista al riscaldamento globale.