a cura di: Dipartimento DIANA, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza
Nel post precedente (Revisione delle emissioni di metano dall’allevamento animale) abbiamo analizzato la questione delle emissioni di metano dell’allevamento animale e delle effettive responsabilità di quest’ultimo nel riscaldamento globale, scoprendo che i veri responsabili del “climate change” non sono gli allevamenti, bensì i combustibili fossili. Quanto riportato non assolve il comparto agricolo e zootecnico in particolare dalle proprie responsabilità nei riguardi del potenziale di riscaldamento dovuto alla concentrazione di gas serra in atmosfera, ma certamente ne ridimensiona e anzi per alcuni versi ne ribalta il ruolo.
Le emissioni di metano biogenico, pur contribuendo all’effetto serra, non sarebbero però tra i principali responsabili del suo aumento. Inoltre, una diminuzione delle emissioni di metano biogenico dagli allevamenti avrebbe un effetto non di riduzione dell’aumento termico bensì di una sua diminuzione, quindi avere un’azione “rinfrescante” sull’ambiente, apprezzabile in tempi relativamente rapidi, date la ridotta emivita di tale gas, ma di non lunga durata. Sarebbe dunque molto importante per tamponare la situazione globale, ma soprattutto in attesa che soluzioni più incisive e di lungo periodo vengano approntate per risolvere il nodo principale, ossia il contenimento della quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera.
Con l’Accordo di Parigi, strumento giuridicamente vincolante nel quadro della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Convenzione sul clima, UNFCCC), è stato assunto l’impegno a limitare il riscaldamento medio globale puntando a un aumento massimo della temperatura pari a 1,5 gradi Celsius rispetto al periodo preindustriale.
Anche il settore zootecnico è chiamato a fornire un rilevante contributo per il raggiungimento di tale obiettivo, che deve essere tuttavia perseguito senza venire meno alle altre mission che l’intero comparto agroalimentare deve perseguire, ossia concorrere alla sicurezza alimentare e sostenere l’economia che su tale comparto si basa e che ha risvolti anche sociali di assoluta rilevanza.
Le azioni che possono essere concretamente intraprese a livello delle aziende zootecniche si dovranno quindi basare sull’efficientamento sostenibile delle produzioni animali, che può essere perseguito attraverso diverse strategie, non alternative tra loro e quindi potenzialmente sinergiche.
La FAO indica tre aree di intervento:
- Miglioramento della qualità degli alimenti e della nutrizione animale. Questo obiettivo può essere declinato in vari modi, dalla valorizzazione delle risorse alimentari localmente disponibili, compresi i sottoprodotti dell’agroindustria, al perfezionamento delle tecniche di razionamento e alimentazione. A tal riguardo, gli approcci di precision farming, supportati dall’impiego di sensori di varia natura abbinati ad un crescente impiego di tecniche di intelligenza artificiale potranno supportare le decisioni aziendale consentendo soprattutto di ridurre gli sprechi alimentari ed aumentando l’efficienza di conversione degli alimenti in alimenti per l’uomo;
- Attenzione alla salute e al benessere animale. Al di là di errati approcci di antropomorfizzazione degli animali, è invece ormai consolidato il rapporto tra benessere animale e produttività, con una sostanziale coincidenza tra rispetto e ricerca del benessere animale e ritorno economico dell’allevamento. L’allungamento della vita produttiva degli animali, almeno di quelli da latte, e la prevenzione delle malattie animali consentono di migliorare l’efficienza non solo economica ma anche ambientale delle produzioni animali. Se il nesso tra benessere e morbilità animale è ormai consolidato, l’introduzione di tecniche di precision farming consente già oggi di prevedere l’insorgere di una patologia prima della sua manifestazione clinica, permettendo di intervenire in anticipo con l’impiego di farmaci più blandi ed evitando all’animale le conseguenze di una malattia conclamata;
- Progresso genetico, qui inteso però non solo come aumento del potenziale produttivo in senso stretto degli animali ma anche, e sempre più, con attenzione agli aspetti di efficienza produttiva, di resistenza alle patologie e di resilienza verso i cambiamenti climatici in atto.
Per ciascuna di queste aree di intervento esistono attualmente soluzioni pratiche di miglioramento, che sono anche già messe in pratica in diverse aziende. La disseminazione di queste soluzioni tecniche al maggior numero possibile di allevamenti comporterebbe una significativa riduzione delle emissioni di metano per unità di prodotto che, a parità di produzione complessiva, si tradurrebbe in un’opera di “raffrescamento” ambientale.
Perché queste strategie di intervento possano avere successo e per il loro continuo affinamento si dimostrano sempre più strategica la disponibilità di informazioni raccolte a diversi livelli in azienda e messe in rete per arrivare a formare insiemi di “big data” da valorizzare attraverso opportune tecniche bioinformatiche.
Contrariamente alle politiche di greenwashing messe in atto da diverse aziende e alla luce di quanto sopra descritto, questi interventi di efficientamento anche ambientale dovrebbero essere interpretati non come azioni “riparatrici” di un danno ambientale, ma piuttosto come atti virtuosi che contribuiscono all’obiettivo di contenimento dell’aumento delle temperature stabilito a livello internazionale e, come tali, rappresentare un indispensabile target degli interventi di sostegno pubblico alla transizione ecologica delle produzioni.